VEN 28 GEN 2011
Il numerico ci salverà dall'artificiale
UIELinux Blog - Quattro chiacchere in libertà
Scritto da Sergio Gridelli
Per lavoro, o per svago (soventemente sommati insieme), stiamo per molte ore della giornata davanti al computer che, da qualche anno, significa soprattutto “abitare internet”.
Spesso, senza nemmeno farci molto caso, finiamo anche per frequentare circuiti di relazioni affini ai nostri interessi. Pertanto, definiamo e rafforziamo convinzioni proprie di questo luogo popolato di bit.
Raramente, e sempre in coincidenza di qualche episodio balzato agli onori della cronaca, ci chiediamo “fra di noi” se il mondo “fuori dalla rete” sia sintonizzato sulla stessa lunghezza d'onda degli internauti. Per dirne una, quelli che dedicano il loro tempo alla televisione generalista hanno la nostra stessa percezione circa l'istantaneità dell'informazione e il suo approvvigionamento multi-interdisciplinare?
È difficile essere obiettivi, soprattutto se si affronta la questione da una specie di piedistallo che ci siamo costruiti. Una sorta di comunità “superiore” di eletti, sempre “troppo avanti” rispetto a coloro che, per scelta o sfortuna, non sono ancora “cablati”.
Ma oggi, complice il rapido mutamento delle chiavi di lettura di una società sempre più liquida, la conoscenza e, più aulicamente, il sapere sono ai minimi storici. Quella televisione che ai suoi albori aveva avuto la fondamentale funzione di alfabetizzare una popolazione italiana “unificata” solo sulla carta e non certo per la lingua, nel XXI secolo il “vecchio” tubo catodico sembra averci fatto precipitare in un sostanziale analfabetismo di ritorno.
Non si tratta solo di ignorare chi ha scoperto l'America o giorno, mese ed anno della rivoluzione francese, ma la difficoltà di saper costruire narrazioni. Anche solo raccontare la trama di un film, rappresenta un'impresa improba per una buona fetta di persone.
Per altro verso, il quadro delineato da Tullio De Mauro sull’analfabetismo funzionale degli italiani è, se possibile, ancora più drammatico. Il 5% degli italiani è analfabeta, il 33% si ferma al primo test sulle competenze linguistiche e aritmetiche. Non riescono a leggere oltre il 30%, mentre non capiscono quello che leggono più del 50% dei nostri connazionali. Poi, confermando, nostro malgrado, un percepito piuttosto acclarato, più del 70% non legge mai alcunché.
C'è poi un fenomeno molto più allarmante. I giovani italiani (16 anni di età) sono al quarto posto in Europa per consumo di psicofarmaci senza prescrizione, immediatamente dietro Polonia, Lituania e Francia (Studio Espad - European school project on alchool and other drugs).
A questo punto, sebbene possa apparire azzardato, se non addirittura improponibile, mi sento comunque di prendere in considerazione una situazione che si mostra sempre più come la stessa faccia di un'unica medaglia. Insomma, che si tratti di una dose di benzodiazepine o di reality televisivo, c'è un filo che unisce entrambe le tipologie esperienziali: la finzione.
Un modo per “evadere” da una realtà senza più alcuna “eccitazione” per il sapere e il suo senso di compiutezza intellettuale. Una via di fuga, semplice e solubile. Da bere, appunto.
I quindici minuti di celebrità, profetizzati da Andy Warhol, sono ormai dilagati dentro l'obiettivo principale di un'intera esistenza. La delegittimazione della cultura e della conoscenza, un tempo veri capisaldi di qualsiasi affermazione sociale, trovano la sponda di apparizioni televisive meteoriche, in cui l'unico requisito richiesto è quello di sapere poco o nulla e, al pari, di non avere alcuna abilità specifica.
E siccome la realtà (quella di tutti i giorni, dietro alle telecamere) così com'è non è altrettanto “elettrizzante”, la chimica offre (senza ricetta medica) la soluzione a portata di mano. Come già detto da qualcuno, la televisione e, aggiungo io, gli psicofarmaci, sono le nuove armi di distrazione di massa.
Quasi come un gas velenoso inodore, piano piano è arrivata anche l'assuefazione. Fra una pasticca ansiolitica e le gocce di un antidepressivo triciclico, si aderisce a qualsiasi bombardamento televisivo, senza tentare più alcun riscatto critico. Anzi, la nostra narrazione è perfettamente formattata dentro le storie delle fiction o della pubblicità. Infatti, di cosa si parla nei luoghi di relazione, se non di “spiriti” televisivi?
L'ho già detto e lo ripeto, c'è un deserto di sapere. C'è bisogno di ricominciare a raccontare le esperienze e di confrontarsi con gli altri attraverso una delle poche cose che ancora ci appartiene: l'emozione di imparare e l'elaborazione che nasce dal confronto con gli altri.
Elaborare sensazioni, mescolarle con altri tracciati di conoscenze, trovare nelle parole la risposta terapeutica al vuoto culturale che, in definitiva, è soprattutto un'aridità individuale, è il solo modo per non farsi lobotomizzare dai grandi fratelli, dalle isole dei più o meno famosi, dai talk show di nullità, erette a opinionisti di qualsiasi cosa.
La soluzione, e a questo punto è più che immaginabile, viene dalla rete digitale (o, meglio, numerica). Da quel dialogo dal basso che inonda i blog, i social network, i forum, le chat. Momenti dove il corpo, ancorché inesistente, si ricostruisce nel pensiero che diventa prepotentemente forma.
I lettori e gli spettatori si frantumano, lasciando il posto all'epifania degli scrittori e degli artisti che albergano, da sempre, in ciascuno di noi. E quando si diventa protagonisti con il proprio sapere, la ragione si fa cura e la conoscenza valore.
Una triste riflessione conclusiva. Quando vedo, nelle scuole, aule informatiche impolverate, perché mancano i cavi o le licenze dei software, penso a quante cellule nervose stiamo mandando al macero televisivo o farmaceutico. I computer didattici che non funzionano o che non ci sono proprio, sono l'emblema di una resa dove le coscienze (specie quelle più giovani) vengono facilmente rapite dall'artificiale. Internet a scuola non è il mezzo per ottenere quell'inutile pezzo di carta dell'ECDL, ma la scoperta di un mezzo culturale, dove si impara la narrazione dei saperi e il rispetto delle idee. Al momento, non conosco un'altra strada per far comprendere che studiare possa servire ancora a qualcosa.