Purtroppo sabato sera è venuto a mancare un mio vecchio e caro amico a causa di un incidente stradale....sembra per colpa del ghiaccio!
Visto che non trovo le parole giuste per descrivere quello che sento, prendo in prestito un articolo di Emanuele Latini ("Arbolle" nei forum meteo) che condivido in tutto e per tutto!
Citazione:
Non è tutto oro ciò che riluce.
Nel dirlo, mi riferisco a tutta quella drammatica vicenda umana che ha fatto da contraltare all'euforia per il ritorno della neve nelle località miti della mediterraneità tirrenica - ci metto dentro, manco a dirlo, Roma ed il suo hinterland.
Bella la neve. Candida la sua morbidezza al sole. Elegante la sua discesa dal cielo opaco. Soave il suo rumore silenzioso. Sì, tutto vero: la neve è poesia; per me lo è sempre stata! Ma andatelo a dire ai pendolari del venerdì pomeriggio, già demoliti dalle ansie della settimana prenatalizia e dallo stress di tutto l'anno alle spalle! Andatelo a dire ai turisti in partenza o in arrivo rimasti bloccati per ore sulle autostrade! Andatelo a dire alle famiglie alle prese con i problemi di tutti giorni! Andatelo a dire a chi aveva la necessità e l'urgenza di spostarsi in pochi minuti: per salute, per studio, per lavoro! Andateglielo a dire. Son curioso di sapere cosa ribatte.
Troppo facile gioire per una nevicata inattesa. La neve porta disagio quando cade in città, quando cade inattesa, quando impedisce il normale decorso della nostra frenetica attività quotidiana. Perché, tu non lo sapevi? La neve disturba, intralcia, confonde, disperde, semplicemente distrugge il nostro mondo del fare e la nostra convinzione di essere padroni assoluti della situazione. Dieci centimetri di manto bianco congelato e marmoreo, incollato al suolo, fanno la differenza tra la normalità e la paralisi di uno Stato ipertecnologizzato. Questa è l'indigeribile verità dell'Italia di oggi.
Così non dobbiamo stupirci se Mario, al termine della propria giornata lavorativa, sia costretto a lasciare il camion a sedici chilometri da casa, arenato nella neve, e a guadagnare la via del ritorno a piedi, sotto l'incalzare della bufera, al buio. Non dobbiamo stupirci se Walter, per un intervento veterinario di estrema urgenza, non riesca a raggiungere la clinica più vicina (ventuno chilometri) entro il margine delle sei ore, senza avere la possibilità di telefonare, perché le linee sono intasate. Non c'è niente di assurdo se Maria rimanga "isolata", assieme ad altri mille passeggeri, al capolinea Cotral di Saxa Rubra per sette ore. Ma, soprattutto, non dobbiamo credere che sia la trama di un film la storia che ci raccontano Gianluca e Annalisa, di ritorno da Milano, rimasti bloccati su strade e autostrade e capaci di coprire la distanza dalla Capitale in qualcosa come diciotto ore. Marco, infine, per arrivare ad Anagni da Roma centro, impiegherà quasi nove ore: la Protezione Civile gli fornirà le coperte per difendersi dal freddo. A tutti gli effetti potrà fregiarsi del titolo di "sopravvissuto".
Non sono trailer cinematografici o spunti per narrativa catastrofista. È storia dei nostri paesi, del nostro presente. La gente, nel 2010, abbandona l'auto e procede a piedi, foss'anche per dieci o venti chilometri, nel buio, nella tormenta di neve, nell'arresa incondizionata, oltretutto nell'impossibilità di usufruire del telefono cellulare stante il collasso della rete mobile. In alcuni paesi dell'interno ci sono black-out. Qualcuno prova a chiedere un passaggio facendo l'autostop: sono le dieci di sera, e magari ha ancora cinque chilometri da fare. A piedi. Chi non cede al ricatto della traversata nordica si autocondanna al supplizio in automobile. In condizioni normali, con gli stessi tempi, si percorrerebbe l'intero tragitto della A1 Milano-Napoli. Qui, invece, alle porte di Roma, si rientra a casa dal lavoro di tutti i giorni. Sulle consolari si arriva anche a venti chilometri di coda. Che rimane ferma, irrisolvibile, per colpa di un autoarticolato che si è messo di traverso quattro ore prima e che nessuno è riuscito a spostare di un centimetro. Perché nel frattempo nevica pesantemente, e i mezzi di soccorso sono inadeguati alla situazione. La gente capisce che non ci sono chances: in molti proseguono a piedi. Ci vuole del coraggio. Non c'è nessuna passeggiata da sera d'agosto che attiri la gente, bensì la naturale esigenza di sopravvivere alla tempesta di vento, neve e pioggia gelata che devasta le espressioni del viso e le situazioni di sempre. Il gelo è avvenente. L'obiettivo primario è salvare la macchina e riparare in casa. Ma la cosa ha il sapore dell'impresa himalayana, anche perché continua a piovere con l'assurda temperatura di -2°C! Non c'è niente, ma proprio niente, che in tutto questo abbia del normale o del déjà-vu. Per qualcuno -pochi, in verità- l'evento meteorologico ha il sapore del gioco e della simpatica novità; per altri è un'avventura poco piacevole che ben volentieri, potendo, avrebbero evitato; per molti altri è una catastrofe incondizionata. Per strada, i nervi di chi è costretto nella coda più estenuante della propria vita sono al limite, messi a dura prova. C'è anche chi viene alle mani. Non se ne può più, si litiga per nulla con il primo che ti passa a fianco, ed anche il tentativo di un sorpasso ingiustificato diventa occasione per una lite furibonda.
E non parliamo dei pendolari, dei passeggeri di treni, bus e navette, ostaggio di una situazione che nessuno dimenticherà mai. A far festa sono solo i carrozzieri e i rimorchiatori che gozzovigliano tra cimiteri di auto tamponate, sbandate, accatastate o semplicemente abbandonate sul ciglio delle strade. È un mondo surreale, un qualcosa che potrebbe non ricapitare nell'arco di qualche decennio. In altri termini, una disfatta organizzativa epocale.
Fin qui i fatti. Ora vengono le riflessioni.
La persona di buon senso, infatti, di fronte a tutto questo, si interroga e si chiede perché. Perché accade tutto questo? Perché gli strumenti tecnologici e le conoscenze ribadite in ambito scientifico non ci consentono di evitare scenari da "The day after tomorrow"? Perché scomodiamo i mezzi di soccorso quando si hanno tutte le possibilità per fare prevenzione? Perché non ci arrendiamo al concetto che un giorno di neve può anche diventare un giorno di festa e non di lavoro ad ogni costo? Gli interrogativi si susseguono, incalzanti, uno dopo l'altro.
Le risposte stan tutte dentro ad un concetto semplice e chiaro: alla meteorologia non si dà la giusta dignità culturale e l'adeguato valore politico, ma soprattutto chi la rappresenta nella veste professionale non incarna alcuna responsabilità civile sulle conseguenze che la propria previsione possa generare.
Non è tollerabile, ad esempio, che un noto previsore di Rai Uno, nelle vesti della classica voce fuori dal coro, preveda neve oltre quota 900-1200 metri sul Lazio, quando, all'indomani, per mezza giornata, i fiocchi cadranno fin sul litorale tirrenico. A 300 metri di altitudine si accumuleranno oltre 10 cm di neve fresca, appesantita poi da gelicidio e graupeln. Scusate, ma questo non è tollerabile. Non è tollerabile soprattutto alla luce delle emissioni ultime dei modelli, tutte conformi ad un tipo di configurazione non consono alle previsioni ufficiali fornite dalla Televisione di Stato, oltretutto contraddittorie nelle sue diverse espressioni.
E poi c'è un'altra severa critica da sferrare, contro la prevenzione che non è mai esistita. Io mi chiedo perché mai si sia permesso di fare arrivare a Roma il mezzo milione o quasi di pendolari su ruota, senza catene o pneumatici da neve, quando si sapeva benissimo che a breve sarebbe nevicato. Perché non si sono chiuse preventivamente scuole e strutture onde evitare il sovraffollamento critico delle strade e la paralisi dei centri urbani? Perché non si è optato per posticipare il posticipabile e agito secondo logica di fronte al serio rischio di una nevicata importante? Perché la macchina dei soccorsi è scattata solo al cader dei primi fiocchi, dunque a disastro compiuto? Non si sa. E soprattutto non si sa chi debba rispondere a queste domande, più che lecite, del cittadino.
E poi, rivolto alla gente comune, chiedo: perché aspettare la grande neve per interessarsi alla meteorologia? Perché scomodare la paralisi prima di chiedersi che tempo farà domani? Perché non agire prevedendo, e dunque limitando i danni, piuttosto che disperdere risorse per arginarli? Perché lasciare inascoltata la voce dei meterologi? E perché maledire il giorno della neve? Perché far proprio l'errato giudizio che la responsabilità del tutto ricada sui capricci del tempo?
Sono tutti interrogativi che, da quando ho a che fare con l'Italia in cui vivo, non hanno ancora trovato una risposta chiara.
Emanuele Latini